Li pupiddhi de Leuca

Quando si pensa al mare fresco e cristallino del Salento si immagina l’estate sulle spiagge o i panorami incantevoli a cui noi siamo abituati.

Il mare però è anche sinonimo di vita che si insegue, di pesce e pescatori, che ogni giorno mettono sulla nostra tavola le bontà che il mare ci offre.

E noi oggi vogliamo parlare di piccoli pesci, quelli che molti salentini conoscono col nome di “pupiddhi” (molto probabilmente dal latino pupillus “piccoli pesci”… per l’appunto).

Essi però sono esclusivi e quindi molto ricercati perché trovano il loro ambiente naturale nel mare Jonio, e particolarmente a Leuca, estremo lembo della penisola Salentina.

Vogliamo infatti credere che il loro sapore sia il risultato della fusione dei due mari Jonio e Adriatico, di cui Leuca può vantare donando al suo pescato quel gusto autentico che il surgelato non riuscirà mai a sostituire.

“Li pupiddhi” sono pesci duri senza squame e lunghi al massimo 15 centimetri circa ed è bello vedere questi pesciolini guizzare ancora nella rete e sentire il profumo che ne deriva, soprattutto quello che le alghe presenti in quel mare riescono a trasferire.

Sulla base di ciò che vi abbiamo illustrato, facendovi venire sicuramente l’acquolina in bocca, vi proponiamo delle ricette che vedono “li pupiddhi” protagonisti:

PUPIDDHI FRITTI:

dopo esservi procurato dell’ottimo olio di oliva, possibilmente locale e, dopo averli infarinati, immergeteli dentro, quando esso bolle usando una padella abbastanza alta.

Quindi cospargeteli di sale raffinato e serviteli caldi, quasi croccanti.

Mangiateli così, con pane fresco possibilmente fatto in casa, e accompagnateli con un buon vino bianco del Salento visto che assolutamente non ci manca.

Solitamente, se non si riesce a consumare tutto il pesce che avete fritto, si fa ricorso ad una ricetta antica, preparando i pupiddhi in agrodolce e il procedimento è semplice:

si tratta di aggiungere al fritto (naturalmente freddo), della mollica di pane, dell’aceto bianco e delle foglioline di menta.

Si lascia il tutto un paio d’ore affinché il pesce assorba gli odori, quindi potete consumare tranquillamente.

Dai pupiddhi nasce anche un’altra ricetta, un piatto unico che da anni fa parte della tradizione culinaria nostrana: la scapece.

Dopo aver ben fritti “li pupiddhi” e cosparsi di sale, si collocano a strati in un recipiente, preferibilmente di terracotta, proprio come si fa con le acciughe da salare.

Su ogni strato si cosparge abbondantemente la mollica mista a zafferano e imbevuta d’aceto bianco.

Sull’ultimo strato si mette un po’ di midolla di pane (la parte molle del pane interna alla crosta) si adagia un coperchio piuttosto aderente con l’interno del recipiente, e sopra un piccolo peso.

Così preparato, il pesce si conserva a lungo ed è ottimo come antipasto.

Ancor oggi quando si svolgono le feste religiose o le classiche sagre paesane, è facile vedere delle tinozze di legno piene di “scapece”, che i vari rivenditori presentano ai passanti sulle bancherelle…come fate a notarle?

Semplice, il giallo dello zafferano e l’odore d’aceto vi attireranno anche solo per un assaggio!